Buon venerdì, anche stamani freddo, leggermente nuvoloso. Giorni densi di lavoro, non trovo mai il tempo per scrivere qualche breve profilo. Tento di rubare il tempo al tempo e buttare giù due righe. Dopo il profilo di Goliarda ho riflettuto sul mondo femminile nella letteratura italiana e mi sono accorto che esistono delle eccellenze, poco conosciute e per niente valorizzate. Una di queste, fra le tante, è Alba de Cespedes (1911 – 1997). L’ho incontrata una sola volta a Roma, fine anni ottanta, un giorno che andai a trovare Alberto Moravia, rimpiango di non aver coltivato il contatto. Nella vita, ogni azione andrebbe fatta due volte e forse sarebbe poco. La ricordo piuttosto anziana, elegante e molto bella per l’età, grande personalità e carisma, anche la figura di Moravia si eclissava. Parlava piano in modo sommesso come avesse il timore di rompere quella calotta di silenzio che si era creata nei suoi confronti, sapeva perfettamente che la memoria è come un’onda lunga, dolce e terribile allo stesso tempo. Grande fumatrice, accendeva la sigaretta con quella che spengeva. Più di tre ore di conversazione e dopo a casa a ripensare a quell’incontro. Sono passati alcuni anni prima che decidessi di approfondire il mondo di Alba de Cespedes. È stata una delle protagoniste della letteratura del ‘900, donna di rara fermezza, perseveranza, ha rifiutato con puntiglio ogni incasellamento, nessuno schema prefissato, si è proposta due obiettivi: la qualità letteraria e un forte impegno politico. Fu partigiana con il nome di battaglia “Clorinda”, già nel 1935 subì la carcere per alcuni articoli sul Messaggero; il suo primo romanzo “Nessuno torna indietro”, Mondadori, 1938, fu censurato e ritirato dal commercio, solo l’intercessione di Arnoldo Mondadori fermò la distruzione. Il romanzo sosteneva l’emancipazione della donna, le donne raccontate da Alba non erano conformi alla morale fascista, fu osteggiato pesantemente. Nel 1944 fondò la rivista “Mercurio”, che si avvalse delle più importanti firme come Moravia,Hemingway, Bontempelli, Aleramo, Maccari, Scialoja; la rivista chiuse nel 1948. A tal proposito riporto una Lettera del 5 luglio 1945 di Gino De Sanctis ad Alba De Céspedes: «Qui le cose vanno bene per quel che riguarda la rivista e la vendita. Male per quel che riguarda la difficoltà sempre più grande di trovare gli articoli: dato che quasi tutte le personalità politiche “romane” hanno già scritto per noi, e alcuni hanno scritto tanto male da toglierci la voglia di invitarli una seconda volta. D’altra parte i cosiddetti giovani non scrivono meglio di loro e perciò la politica riesce ogni giorno più difficoltosa, seppure io passi la giornata a lanciare inviti. […] Sarebbe più urgente qualche articolo di politica perché la gente ha voglia di leggere firme nuove e non il solito rifritto che dai quotidiani passa ai settimanali e alle riviste». Finita l’avventura di “Mercurio” scrive su “Epoca” e su “La Stampa”, da 1950 su dedica esclusivamente alla stesura dei suoi romanzi: “Dalla parte di lei”, “Quaderno proibito”, “Prima e dopo”, “Il rimorso” e “La bambolona”. Ci lascia, nel 1997, nella sua casa parigina dell’isola Saint-Louis come noi l’avevamo abbandonata e dimenticata; comunque proprio perché trascurata, caduta nell’oblio, Alba de Cespedes si sentiva veramente “libera”.
[…] Stasera, rincasando, ero gelata. E, prima di salire in camera, sono entrata nel bar per bere un
grog.
Lì, seduti a fianco sul divano, ho scorto gli interpreti di una clamorosa vicenda d'amore, da un paio
d'anni stabilitisi a Parigi. Subito, osservandoli, ho avuto una stretta al cuore. Non parlavano più
animatamente, l'uno rivolto verso l'altra per non perdere una parola, uno sguardo, come li avevo
visti l'anno scorso. Allora, il loro fervido discorrere, il saluto breve che m'avevano rivolto per
evitare che andassi a salutarli, interrompendo il loro colloquio, avevano suscitato in me una
benevole invidia. Ora, invece, tacevano. Lui tamburellava con le dita sul tavolino e lei girava lo
sguardo attorno cercando qualcosa che potesse interessarla. Quando sono entrata hanno scorto in
me un provvidenziale diversivo. Ma, sebbene m'invitassero con aperti sorrisi, non mi sono
avvicinata per non essere costretta a rendermi conto che la loro passione era decaduta in un placido
affetto soffuso di noia. […]
È stato proprio con aria di complicità che egli è venuto ad invitarmi al loro tavolino. Quando li ho
raggiunti ho notato ancora una volta quanto siano abili le donne nell'inventare il personaggio di se
stesse in cui vogliono vedersi raffigurate. Ella mi ha accolto come se fosse stata sorpresa in uno dei
loro antichi colloqui clandestini e, arrossita, fissava il suo compagno con uno sguardo che imitava
perfettamente quello di un tempo. Ma lui, ingenuamente, confermava i miei sospetti, chiamandola
"Topolino" e usando, nel parlarle, un gergo bamboleggiante, inadatto alla loro ardita condizione.
Lei sorrideva, soddisfatta, mentre io consideravo che la sostituzione del linguaggio serio degli
amanti con quelle blandizie infantili manifestava un ritorno all'innocenza e, dunque,
all'indifferenza nel campo sessuale.
Poi, diretta al telefono, passò una ragazza alta, splendida, dai capelli tinti di rosso fiamma secondo
l'ultima moda; le gambe, lunghe e piene, si disegnavano sotto la stretta gonna. "Belle gambe", io
dissi. "Bellissime", rafforzò la mia amica, guardando il suo compagno per averne conferma. "Sì",
egli ammise senza convinzione, e poi aggiunse con una smorfia; "Sembrano belle a causa dei
tacchi molto alti". Si discusse, allora, di quali tacchi giovino maggiormente alla figura femminile.
"A me stanno meglio i tacchi bassi o quelli alti?", domandò lei con voluta noncuranza. Egli pensò
un momento, poi disse, teneramente: "A te sta bene tutto".
Io salutai, adducendo una scusa. Mi domandavo se, dopo quell'episodio e quella frase, anche lei
avesse capito che il loro grande amore era finito, che egli era sul punto di tradirla o, forse, l'aveva
già tradita.
[Alba De Cèspedes, Diario di una scrittrice]
grog.
Lì, seduti a fianco sul divano, ho scorto gli interpreti di una clamorosa vicenda d'amore, da un paio
d'anni stabilitisi a Parigi. Subito, osservandoli, ho avuto una stretta al cuore. Non parlavano più
animatamente, l'uno rivolto verso l'altra per non perdere una parola, uno sguardo, come li avevo
visti l'anno scorso. Allora, il loro fervido discorrere, il saluto breve che m'avevano rivolto per
evitare che andassi a salutarli, interrompendo il loro colloquio, avevano suscitato in me una
benevole invidia. Ora, invece, tacevano. Lui tamburellava con le dita sul tavolino e lei girava lo
sguardo attorno cercando qualcosa che potesse interessarla. Quando sono entrata hanno scorto in
me un provvidenziale diversivo. Ma, sebbene m'invitassero con aperti sorrisi, non mi sono
avvicinata per non essere costretta a rendermi conto che la loro passione era decaduta in un placido
affetto soffuso di noia. […]
È stato proprio con aria di complicità che egli è venuto ad invitarmi al loro tavolino. Quando li ho
raggiunti ho notato ancora una volta quanto siano abili le donne nell'inventare il personaggio di se
stesse in cui vogliono vedersi raffigurate. Ella mi ha accolto come se fosse stata sorpresa in uno dei
loro antichi colloqui clandestini e, arrossita, fissava il suo compagno con uno sguardo che imitava
perfettamente quello di un tempo. Ma lui, ingenuamente, confermava i miei sospetti, chiamandola
"Topolino" e usando, nel parlarle, un gergo bamboleggiante, inadatto alla loro ardita condizione.
Lei sorrideva, soddisfatta, mentre io consideravo che la sostituzione del linguaggio serio degli
amanti con quelle blandizie infantili manifestava un ritorno all'innocenza e, dunque,
all'indifferenza nel campo sessuale.
Poi, diretta al telefono, passò una ragazza alta, splendida, dai capelli tinti di rosso fiamma secondo
l'ultima moda; le gambe, lunghe e piene, si disegnavano sotto la stretta gonna. "Belle gambe", io
dissi. "Bellissime", rafforzò la mia amica, guardando il suo compagno per averne conferma. "Sì",
egli ammise senza convinzione, e poi aggiunse con una smorfia; "Sembrano belle a causa dei
tacchi molto alti". Si discusse, allora, di quali tacchi giovino maggiormente alla figura femminile.
"A me stanno meglio i tacchi bassi o quelli alti?", domandò lei con voluta noncuranza. Egli pensò
un momento, poi disse, teneramente: "A te sta bene tutto".
Io salutai, adducendo una scusa. Mi domandavo se, dopo quell'episodio e quella frase, anche lei
avesse capito che il loro grande amore era finito, che egli era sul punto di tradirla o, forse, l'aveva
già tradita.
[Alba De Cèspedes, Diario di una scrittrice]
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