mercoledì 20 febbraio 2013

Elio Pagliarani, Rosso Corpo Lingua

" proviamo ancora col corpo: corpo, un cerchio intorno, poi corpo su corpo: avessimo , Nandi]
sopra il corpo un viluppo di corpi un punto sette punti del corpo se avessero]
la macchia a cavallo del corpo, che segna il triangolo, mobile macchia su corpi]
costretti nel viluppo dei corpi, che segue ai bordi il triangolo, deborda oltre il corpo]
nel tempo, si sparge sul tempo del corpo, sul corpo scavato dal tempo fin dentro il midollo dell'osso]
tempo del corpo nell'intreccio del plesso, avendo, Nandi, corpo e fiato del corpo nel corso del tempo nel fiato del vento, corpo]
nel corpo, fiore del corpo sul gambo del corpo nel bosco del corpo sulla spiaggia dei corpi dove il vento]
odora solo di corpo: troppo corpo Nandi o troppe parole sul corpo o un corpo sgomento del corpo?]
proviamo ancora col corpo: corpo, perché cerchio? nessun cerchio intorno, corpo su corpo]
c'è un cerchio: corpo, corpo"

Elio Pagliarani da Rosso corpo lingua, Roma, Cooperativa scrittori, 1977

lunedì 18 febbraio 2013

Una Foto di Martino Pisanello

Photo by Martino Pisanello

Dimmi dov’è che si scherma il cuore?
Il peso vivo l’astuta terrazza
dov’è che si scherma il cuore?
Che se proprio dovesse
trascinami in passione
solo così cadendo la maschera
sui vivi fianchi sui seni che cercano
la coppa delle tue mani
nella mia bocca rifugio del tuo sesso
nella tua bocca schiudendosi il mio sesso
trascinami là dove si spoglia il cuore
in gelosia retratta in schermaglia
in tempesta in fuga in volo della pelle
in disperato possesso
considerando la fame il ritorno
il trionfo del seme che esplode
in dolce amaro di noi
in dolce densa salina

Cetta Petrollo da Recitativi d'amore, 2012.

domenica 17 febbraio 2013

Cetta Petrollo da Sonetti e Stornelli ( 1977-1984) Tam Tam, 1984.

Chiuso sonetto che su te conclude
per lento suono di piana bonaccia
impronta delicata che si lascia
e sabbia persa d'alga intenerisce.

Ed insistono risse di parola
seni sconfitti in gusci di conchiglia
chele stordite tese nell'appiglio
di svelate meduse ancora viola.

Sommossa dell'amore e della guardia
per te resisto versi in armonia
che lontano, lontano ti ritragga

e mite inganni rischio e strategia.
Ah segnali di vita e di battaglia
io vi concludo in ritmo di malia!

Cetta Petrollo


Fabrizio Mugnaini su Laudomia Bonanni


Buongiorno e buona domenica, ieri finalmente mi sono preso un giorno di svago, passeggiata al mare con pranzo a base di pesce, oggi riposo nello studio tra libri e conigliette. Sempre rimanendo in tema di letteratura femminile, poco conosciuta e per niente valorizzata, mi preme parlare di una scrittrice che, secondo me, andrebbe riletta, Laudomia Bonanni (1907 – 2002). Non ho avuto il piacere di conoscerla di persona, credo per una forma di pigrizia che ti assale quando sei giovane o perché pensi di dare delle priorità e spesso sbagli, con l’esperienza di oggi non avrei perso questa ghiotta occasione. Comunque sono felice di non averla trascurata come scrittrice leggendo gran parte dei suoi scritti, almeno quelli che ho avuto modo di procurarmi. Laudomia è sempre stata una maestra elementare, non ha mai cercato notorietà, la sua lunga esperienza a contatto del mondo giovanile è stata arricchita dalla consulenza presso il Tribunale dei minori; nonostante gli impegni ha trovato il modo di scrivere dei bellissimi romanzi che, attenti alle problematiche delle classi più umili, hanno offerto uno spaccato della società contemporanea. Il suo modo di scrivere è particolare e le tematiche che affronta la rendono unica nel panorama del ‘900 italiano. Era convinta che il maschilismo rovinasse il mondo e che era necessario abituare, dirozzare lo spirito al dolore del vivere. La prima convinzione sarà quella che la relegherà nel più profondo scantinato, senza luce e acqua, destinata a morire di stenti, sola e dimenticata. In vita la sua fama non poté passare inosservata, i suoi maggiori estimatori furono Montale, Cecchi, De Robertis, Falqui; con il “Fosso”, ottenne il premio al salotto letterario Bellonci e nel 1950 vinse, prima ed unica donna, il Premio Bagutta, con “L’imputata” nel 1960 vinse il Premio Viareggio e nel 1964 il Premio Campiello con “L’adultera”. Quando nel 1985 l’editore Bompiani rifiutò di pubblicare il suo ultimo romanzo “La rappresaglia”, posò per sempre la penna e si ritirò a vita privata. Modi da misantropa cortese, un sorriso a tutti, chiacchiere e confidenze a nessuno. Rimase solitaria, rocciosa come il Gran Sasso che nel 1907 l’aveva vista nascere ai suoi piedi. Pietro Zullino la ricorda così: “Alle sei di ogni sera una ultranovantenne piccola dal passo straordinario agile e svelto si affacciava su piazza della Balduina – scendendo dalla sua dimora al terzo piano di via Romagnoli 12 – e cominciava la sua quotidiana passeggiata di tre chilometri, per vie secondarie su su fino al giro della boscosa Villa Stuart, e ritorno. Il tabaccaio, il libraio, il fioraio, i portinai, i negozianti in genere, i bancarellari di Piazza Mazzaresi, persino i vu’ cumprà del marciapiede la conoscevano come la Grande Scrittrice”. Io mi auguro che tutti la possiamo ricordare così, gentile, novantenne senza un capello bianco e passo svelto da gazzella, promettendo di leggere e ri-leggere i suoi libri, fonte di insegnamento ed ispirazione.
La serva Colomba e il marito Titta contadino, analfabeti, strappano la vita coi denti. Riattata una casetta ai margini del paese, cercano di farsi anche un orto.
Per lungo tempo, sbrigate le faccende e preparato il cibo, non potendo più raggiungere Titta, la Colomba s’affacciò alla finestruola e stette per mezze giornate a rimirare il fosso. Così le donne chiamavano quel che Titta chiamava orto. Era in realtà un appezzamento di terreno rimasto all’oscuro dietro il mucchio delle casipole più povere, lassù in cima al paese. L’unico lato libero, a ponente, era chiuso da una muriccia sormontata da rovo e vitalba infrascati insieme. Di tanto in tanto s’aprivano quei buchi di finestre sul retro delle case e veniva vuotato nel fosso un orinale o vi piovevano manciate d’immondizia. Ve n’era un cumulo entro cui il sambuco, scerpato dalla ragazzaglia, corroso, nero come di grumi, continuava a verzicare in primavera e ad aprire le ombrellucce bianche dei fiori, impregnando attorno l’aria d’un odor sapido di malattia. I ragazzi che, superando d’un salto la muriccia sgretolata, andavano ad accoccolarvisi per fare i loro bisogni, finirono per mettersi soggezione di quella donnina che restava affacciata senza dir nulla finché si nettavano con una foglia del sambuco e si tiravano su le brache. Quando le vicine la videro star sotto l’albero, si peritarono, se non di gettar le immondizie, almeno di vuotare gli orinali, pur borbottando. Infine, zitta zitta, la Monachicchia [nomignolo di Colomba] rimosse quel letamaio, trasportò scavò rivoltò, e un giorno ebbe ripulito il fosso. Le vecchie si ricordarono che la madre di Titta, lei pure, aveva voluto piantarci qualcosa. Neanche di sole ce n’è per tutti a questo mondo, ben si sa: ma certa gente non vuole accorgersi che il sole non l’arriva.
(Laudomia Bonanni, da Il fosso, Mondadori, Milano, 1949)

Una Poesia di Fabiana Grasso


Sono creatura minore
dove si infrangono i muri
parlati e gli occhi iniziano a cadere
nel respiro acuto rigenero
la potenza della ragione
in quel dilaniato ricordo del nostro
rimanere in bilico.

Non seguirmi
è una lasciva realtà nelle vene che scorre
resto nel freddo di una pietra
che dà ricordo di un bacio rimasto nella saliva
così scarno, così raggrumato
nel senso di un'appartenenza che schiena
tra un vecchio lessico
appena al di là del mare.


Fabiana Grasso

sabato 16 febbraio 2013

17 febbraio 2012/ 17 febbraio 2013



Il basilico si trita da soli.
E da soli si guarda fuori dalla finestra
manca perfino la confusione dell’affanno
fra carrozzelle e aste per la flebo
manca Ramona manca Edoardo
mancano i tuoi strilli al telefono
(li farei fuori tutti)
manca il dottore manca il 118.
E il basilico si trita da sole
in poltiglia.
E da sole si guarda fuori dalla
finestra
nessun passante da invitare in casa
perché la casa è attiva di fantasmi
può praticarla solo chi li ha visti
li ha sentiti
formarsi in un dicembre disperante
dalle albe lunari
aperte sulla calcarea carbonica
delle cinque
e fanciulle a seguire
scorrere in un febbraio catarroso
bianchiccio
dal grande resistente respiro
fermarsi a marzo
per tornare poi
a vivere tutti i giorni.
Il basilico si trita da sole
nessuno con cui guardare il passato
e la solita poesia quotidiana
che ti scrivo
fa una fatica boia
dio che fatica
a medicare l’anima.

Cetta

Il Salto della corda: Passeggiata in due tempi e molto altro . Letture d...

Il Salto della corda: Passeggiata in due tempi e molto altro . Letture d...

venerdì 15 febbraio 2013

Elio Pagliarani su Periodo Ipotetico. 1977. Numero 10/11

Sentite che bello! Pelle d'oca: " Elio Pagliarani sulla funzione del linguaggio poetico ( 1977, anni di piombo, Indiani metropolitani e quant'altro, sul num. 10/11 di Periodo Ipotetico e ci voleva un bel coraggio a dire queste cose allora) : " e per quel tanto che il laboratorio di poesia è verifica del linguaggio dunque verifica dell’ideologia, faremo i conti in tasca al nostro prossimo, e prepareremo gli strumenti ben disinfettati per i chirurghi a venire. ( perché i chirurghi verranno; altrimenti vorrebbe dire che l’Europa ha imboccato senza speranza di ritorno il vicolo cieco di quanti non trovano la ruota) E poi ancora :" “ Ma dalla funzione di verifica del linguaggio si possono e devono trarre anche conseguenze più umili e decisive e immediatamente verificabili, come quella che permette di attivare i sensi del corpo umano: come sono capaci di fare la parola, i costrutti, che colpiscano sensi e intelletto, per freschezza, novità, frequenza di significati, musicalità ( ma di musica anch’essa contemporanea), capacità di insediamento nella meoria – donde l’importanza del ritmo, il grande specifico alleato delle arti, il collegamento principe al canale ipostorico e iperstorico ( non metastorico, meta mai, sempre quaggiù) rappresentato dalla continuità biologica ed estensione, spazialità fisica del corpo umano” Elio che brutto non potercelo più dire. l'Europa ha abdicato. i chirurghi se verranno non saranno i nostri. Ma Giuda porco, come avresti sacramentato tu, almeno il nostro daffare lasciatecelo.

Il corpo umano. Se leggendo una poesia il mio corpo, i miei sensi, rimangono indifferenti ecco quella poesia non mi piace. Non resta nella mia testa. Non l'imparo a memoria. Ma se mi eccita ho il fisico bisogno di vedere come la dice il corpo del poeta. Anche se la sussurra e la trascina male dove lei non vorrebbe andare io devo conoscere assieme al corpo della lingua anche il corpo del poeta.
Questo ho imparato da Pagliarani, tutti i giorni, fra le otto e le nove del mattino.

Una Poesia di Fabiana Grasso

Ho assunto all'orlo della bocca
dei digiuni d'alghe
in quel tratto vegetale che sgocciola
e fa dondolare il capo
annuso il liquido
un andirivieni di succo lieve
fino ai seni
come pioggia dispersa
che forma il peccato
dove una volta siamo stati grandi
dove si esce dalla crepa per diventare umani
cercando sedimento nei lieviti di madri nuove
come una promessa terra


Fabiana Grasso

Fabrizio Mugnaini per Alba De Cespedes



Buon venerdì, anche stamani freddo, leggermente nuvoloso. Giorni densi di lavoro, non trovo mai il tempo per scrivere qualche breve profilo. Tento di rubare il tempo al tempo e buttare giù due righe. Dopo il profilo di Goliarda ho riflettuto sul mondo femminile nella letteratura italiana e mi sono accorto che esistono delle eccellenze, poco conosciute e per niente valorizzate. Una di queste, fra le tante, è Alba de Cespedes (1911 – 1997). L’ho incontrata una sola volta a Roma, fine anni ottanta, un giorno che andai a trovare Alberto Moravia, rimpiango di non aver coltivato il contatto. Nella vita, ogni azione andrebbe fatta due volte e forse sarebbe poco. La ricordo piuttosto anziana, elegante e molto bella per l’età, grande personalità e carisma, anche la figura di Moravia si eclissava. Parlava piano in modo sommesso come avesse il timore di rompere quella calotta di silenzio che si era creata nei suoi confronti, sapeva perfettamente che la memoria è come un’onda lunga, dolce e terribile allo stesso tempo. Grande fumatrice, accendeva la sigaretta con quella che spengeva. Più di tre ore di conversazione e dopo a casa a ripensare a quell’incontro. Sono passati alcuni anni prima che decidessi di approfondire il mondo di Alba de Cespedes. È stata una delle protagoniste della letteratura del ‘900, donna di rara fermezza, perseveranza, ha rifiutato con puntiglio ogni incasellamento, nessuno schema prefissato, si è proposta due obiettivi: la qualità letteraria e un forte impegno politico. Fu partigiana con il nome di battaglia “Clorinda”, già nel 1935 subì la carcere per alcuni articoli sul Messaggero; il suo primo romanzo “Nessuno torna indietro”, Mondadori, 1938, fu censurato e ritirato dal commercio, solo l’intercessione di Arnoldo Mondadori fermò la distruzione. Il romanzo sosteneva l’emancipazione della donna, le donne raccontate da Alba non erano conformi alla morale fascista, fu osteggiato pesantemente. Nel 1944 fondò la rivista “Mercurio”, che si avvalse delle più importanti firme come Moravia,Hemingway, Bontempelli, Aleramo, Maccari, Scialoja; la rivista chiuse nel 1948. A tal proposito riporto una Lettera del 5 luglio 1945 di Gino De Sanctis ad Alba De Céspedes: «Qui le cose vanno bene per quel che riguarda la rivista e la vendita. Male per quel che riguarda la difficoltà sempre più grande di trovare gli articoli: dato che quasi tutte le personalità politiche “romane” hanno già scritto per noi, e alcuni hanno scritto tanto male da toglierci la voglia di invitarli una seconda volta. D’altra parte i cosiddetti giovani non scrivono meglio di loro e perciò la politica riesce ogni giorno più difficoltosa, seppure io passi la giornata a lanciare inviti. […] Sarebbe più urgente qualche articolo di politica perché la gente ha voglia di leggere firme nuove e non il solito rifritto che dai quotidiani passa ai settimanali e alle riviste». Finita l’avventura di “Mercurio” scrive su “Epoca” e su “La Stampa”, da 1950 su dedica esclusivamente alla stesura dei suoi romanzi: “Dalla parte di lei”, “Quaderno proibito”, “Prima e dopo”, “Il rimorso” e “La bambolona”. Ci lascia, nel 1997, nella sua casa parigina dell’isola Saint-Louis come noi l’avevamo abbandonata e dimenticata; comunque proprio perché trascurata, caduta nell’oblio, Alba de Cespedes si sentiva veramente “libera”.
[…] Stasera, rincasando, ero gelata. E, prima di salire in camera, sono entrata nel bar per bere un
grog.
Lì, seduti a fianco sul divano, ho scorto gli interpreti di una clamorosa vicenda d'amore, da un paio
d'anni stabilitisi a Parigi. Subito, osservandoli, ho avuto una stretta al cuore. Non parlavano più
animatamente, l'uno rivolto verso l'altra per non perdere una parola, uno sguardo, come li avevo
visti l'anno scorso. Allora, il loro fervido discorrere, il saluto breve che m'avevano rivolto per
evitare che andassi a salutarli, interrompendo il loro colloquio, avevano suscitato in me una
benevole invidia. Ora, invece, tacevano. Lui tamburellava con le dita sul tavolino e lei girava lo
sguardo attorno cercando qualcosa che potesse interessarla. Quando sono entrata hanno scorto in
me un provvidenziale diversivo. Ma, sebbene m'invitassero con aperti sorrisi, non mi sono
avvicinata per non essere costretta a rendermi conto che la loro passione era decaduta in un placido
affetto soffuso di noia. […]
È stato proprio con aria di complicità che egli è venuto ad invitarmi al loro tavolino. Quando li ho
raggiunti ho notato ancora una volta quanto siano abili le donne nell'inventare il personaggio di se
stesse in cui vogliono vedersi raffigurate. Ella mi ha accolto come se fosse stata sorpresa in uno dei
loro antichi colloqui clandestini e, arrossita, fissava il suo compagno con uno sguardo che imitava
perfettamente quello di un tempo. Ma lui, ingenuamente, confermava i miei sospetti, chiamandola
"Topolino" e usando, nel parlarle, un gergo bamboleggiante, inadatto alla loro ardita condizione.
Lei sorrideva, soddisfatta, mentre io consideravo che la sostituzione del linguaggio serio degli
amanti con quelle blandizie infantili manifestava un ritorno all'innocenza e, dunque,
all'indifferenza nel campo sessuale.
Poi, diretta al telefono, passò una ragazza alta, splendida, dai capelli tinti di rosso fiamma secondo
l'ultima moda; le gambe, lunghe e piene, si disegnavano sotto la stretta gonna. "Belle gambe", io
dissi. "Bellissime", rafforzò la mia amica, guardando il suo compagno per averne conferma. "Sì",
egli ammise senza convinzione, e poi aggiunse con una smorfia; "Sembrano belle a causa dei
tacchi molto alti". Si discusse, allora, di quali tacchi giovino maggiormente alla figura femminile.
"A me stanno meglio i tacchi bassi o quelli alti?", domandò lei con voluta noncuranza. Egli pensò
un momento, poi disse, teneramente: "A te sta bene tutto".
Io salutai, adducendo una scusa. Mi domandavo se, dopo quell'episodio e quella frase, anche lei
avesse capito che il loro grande amore era finito, che egli era sul punto di tradirla o, forse, l'aveva
già tradita.
[Alba De Cèspedes, Diario di una scrittrice]

mercoledì 13 febbraio 2013

Da Le Convenienti giornate , Poesie per Elio


Da Le Convenienti giornate
Poesie per Elio

Una serie di parole che assolutamente,
assolutamente, non, non, avresti voluto
per esempio come amore pianto cuore dolore
e sole e neve e luna e notte
non avresti voluto
noiosa poi avresti aggiunto e
piuttosto fatti un amante.
Ma il pianto sale questa mattina
e vedi salgono proprio tutte
si affollano si spingono si serrano
amore pianto cuore dolore
e sole che oggi c’è e neve
che c’è stata e luna che ricresce
e notte che è passata
e ad ogni modo mi sforzo
 di pensare  come l’avresti aperta
tu questa giornata
ma non ci sei
e manchi e manchi e manchi  
e  già l’hai detto
da prima che nascessi
“ sarà ora di chiudere, amore”
e “ sono vivo, senza rimedio,
 sono ancora vivo”

Cetta Petrollo
http://www.youtube.com/watch?v=8sMQb67cOEs&feature=youtu.be

domenica 10 febbraio 2013

Nell'acqua grande del giorno


Ho sognato stanotte il nostro bacio
Il bacio che ci davamo
a modo nostro
così il cuore si è aperto
si è spaccato
ed al risveglio non faceva male
Potrò mai dirti questo?
Come in effetti  dico
(e tu mi chiedi  di notte della cabala)
ha coraggio il sogno
si presenta
(è mezzanotte
e do la buonanotte)
col tuo retino ci peschi  tutti e due
ti arrischi di desiderio
nell’acqua grande del giorno
e  ci ributti
me e il mio sogno
appena un po’ guariti.

Cetta Petrollo

Fabrizio Mugnaini su libri biblioteche e librai

Buona domenica, ridendo e scherzando siamo arrivati già al 10 febbraio, incredibile. Molto probabilmente questo forzato riposo mi ha tolto la sensazione del tempo che scorre … Non sono stato per niente bene, prendo comunque il lato positivo, qualche lettura in più me la sono fatta e questo non guasta. Oggi mi piace parlare di una delle tante passioni che mi legano al mondo dei libri: il libri che parlano di libri, biblioteche, librai. È una passione che coltivo da molto tempo, non solo leggo quei libri che già dal titolo affrontano l’argomento, ma annoto anche tutte le frasi che trovo durante le letture più disparate. Lo so, mi considerate pazzo e come non potrei esserlo visto che i giorni di tramontana sento ancora piangere Dino Campana rinchiuso nel manicomio di Castelpulci? Il lamento di Dino mi accompagna sempre e quando sono nello studio con la finestra aperta, vi confesso che è una dolce compagnia, fisicamente è sepolto nel cimitero di San Colombano, poco distante anche quello, ma l’anima vaga per la campagna circostante e ogni tanto si ferma per un caffè. Secondo me un libro va letto sempre con attenzione e mai solo la trama di cui narra, il libro nasconde sempre qualcosa, nuovi spunti, riflessioni, interessi; annotare e rileggere dovrebbe essere un dovere di ciascuno, lettori distratti e occasionali non fanno un bel servizio al libro. La lettura per essere vera deve essere costante, durare nel tempo, deve arrampicarsi come uno scalatore che affronta montagne invalicabili, principalmente non deve mai appagare la nostra anima. Curiosità e conoscenza. “Quali sono gli oggetti che nella vita le hanno tenuto maggiormente compagnia?” Carlo Bo rispondeva: “Non ricordi un giorno che mi sia passato senza libri”. Leggere un libro che parla, racconta di libri scomparsi e ritrovati, di manoscritti, di bozze ancora da corregge mi affascina, mi rapisce il profumo della carta, l’odore dell’inchiostro. Il libro va aperto e chiuso come la porta di casa, so deve entrare dentro, sfogliare pagina dopo pagine, tornare indietro, lasciare segnali del nostro passaggio, biglietti, segnalibri, annotazioni, senza mai piegarne l’angolino, anche il libri sono vivi, soffrono a questi affronti e la notte, a luci spente, si lamentano, piangono. Di seguito alcune brevi segnalazioni che mi sono annotato in questi anni: “O amatore di libri, un certo mio modo di amarli e di possederli ti sarà sempre sconosciuto; né io saprò mai renderlo chiaro. Niun di essi viveva intiero; ma in tutti era un punto sensibile che sapevo cercare e premere” (Gabriel D’Annunzio, “La vita di Cola di Rienzo”, 1968); “Mi pare di fiutare nell’aria una libreria, libraio compreso” (Robert Walser, “La passeggiata”, 1976); “Una lettera stampata, maiuscola o minuscola, tonda o corsiva, è un ritratto, un simbolo, è un’immagine: ci dice il colore della pelle, la pressione sanguigna, la capacità sessuale, il gradiente fantastico, l’abilità delle mani, l’acutezza ottica, l’intelligenza, l’astuzia …” (Leonardo Sinisgalli, “Furor mathematicus”, 1967); “Egli bagnava l’indice e il pollice con la lingua per sfogliare il suo libro, e a ogni tocco della sua saliva quelle pagine perdevano di vigore, aprirle voleva dire piegarle, offrirle alla severa azione dell’aria e della polvere, che avrebbero roso le sottili venature di cui la pergamena si increspava nello sforzo, avrebbero prodotto nuove muffe là dove la saliva aveva ammorbidito ma indebolito l’angolo del foglio” (Umberto Eco, “Il nome della rosa”, 1984); “ … perché mai ho saputo che questo prezioso libro esiste, se non devo possederlo né vederlo mai? Andrei a cercarlo nel cuore ardente dell’Africa, o tra i ghiacci del polo, se sapessi di trovarlo” (Anatole France, “Il Misfatto del professore Sylvestre Bonnard”, 1982); “Perché la pagina rientri nel libro e non si rovini ulteriormente, bisogna riportarla alla misura delle altre. E ci vorrà un rappezzo in pergamena bianca dove più non scorre il sangue delle parole, ma necessario per il giusto equilibrio col resto: così come il troncone di legno della gamba o del braccio mutilati” (Manara Velgimigli, “Uomini e scrittori del mio tempo”, 1965). Dedicato a tutti coloro che mantengono nel tempo il gusto della lettura e sono disposti a lasciarsi sorprendere e intrigare dall’energia di una pagina scritta.

Fabrizio Mugnaini

Profumeria

Esci dal sogno amore
ed entra dentro al mio
che il mio è come il ciliegio
prima che arrivino gli uccelli
è come il prato con le pratoline
non viste e poi subito viste
è come la focaccia appena cotta
quella che ti portai
quando avevi fame
ma io molta di più
è come l’acqua sorgiva
quella che sgorga dalla polla
e fa ringiovanire
ed io per te la cerco
nelle profumerie
prenda per lui signora
prenda questa
che fa ringiovanire
( aggiungo io se non la pelle
almeno Il cuore).

Cetta Petrollo

Ballatella 3




Quanto tempo mi farete portare
quest’ amore
questa cesta pesante
fra le braccia
che me la cullo
da mattina a sera
con le sue melagrane
i suoi limoni?
Quanto tempo ancora
ancora quanto tempo
mi farete salire la montagna
delle vostre durezze
il deserto del disamore
per quei sassi che bucano
le mie cioce ed il cuore?
Voi lo sapete
che in fondo alla parola
mio signore
ancora c’è parola
e ancora e ancora
e  quale grido di aquila
infine esploda
nella  reggia vostra
d’eremita.

Cetta Petrollo

sabato 9 febbraio 2013

Fabrizio Mugnaini e Goliarda Sapienza


  • Buongiorno, buon sabato soleggiato ma freddo. Finalmente mi rimetto a scrivere qualche breve profilo, tutto questo trambusto mi ha demotivato e non trovavo più le energie per scrivere, solo appunti e tanti libri letti. Questa breve descrizione fa parte, come diceva Vanni Scheiwiller, di quegli incontri importanti che vanno raccontati e descritti perché mai avvenuti. Sì, è vero, non ho mai incontrato Goliarda Sapienza (1924 – 1996), ma quanto l’ho desiderato, quanto avrei voluto varcare quella porta sempre aperta. Non l’ho fatto, eppure gli anni erano quelli in cui giravo l’Italia per conoscere pittori e scrittori. Di Goliarda mi aveva colpito il primo libro che avevo letto “Lettera aperta”, successivamente ne ho letti altri come “L’universo di Rebibbia” e “Destino coatto” due libri che parlano della sua detenzione nel carcere. La sua scrittura è limpida, vera ti arriva al cuore. Ho invidiato la sua libertà. Che significa essere liberi? Credo che significhi vivere i propri sentimenti, descrivendoli per come sono senza tanti fronzoli, aggiustarli, modificarli e farli sembrare altro, ma impegnarsi in questo può risultare un disagio, un vero e proprio castigo che ti può annientare, demolire, avvelenare il sangue e viaggiare nel mondo dell’indifferenza di chi non è preparato a prestare attenzione al grido di libertà. Un prezzo da pagare, quel prezzo che solo i grandi riescono a sborsare senza bruciarsi. Goliarda ha avuto la forza di resistere, di rimanere libera, pura nel suo modo di essere, ha osato scrivere quello che vedeva, che sentiva e per questo è stata respinta, osteggiata, isolata, rifiutata da una critica ammuffita, paludata, arrogante che ha avuto paura della sua penna troppo libera ed imprevedibile per essere tenuta a bada. Goliarda ha vissuto la sua vita senza preoccuparsi del giudizio degli altri, senza paura degli scandali, non è rimasta invischiate nelle ragnatele tese da un mondo ancora troppo dominato dagli uomini e da regole assurde e opprimenti; è fuggita come una lepre dalla tagliola. Mi auguro che il silenzio che l’ha avvolta in vita possa sparire nel momento in cui ci impegniamo a rileggerla con attenzione e darle il giusto peso che merita e conviene a una donna che ha lottato e preteso il suo, ricompensandola di quel dolore silenzioso che l’ha accompagnata per difendersi dalle lacerazioni del genere umano. Brava Goliarda, tieni ancora la porta aperta, entreremo in tanti per farti compagnia e per leggere insieme quello che hai ancora nascosto nella cassapanca, inedito, mai pubblicato.
    “Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali… e poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione.
    Imparai a leggere i libri in un altro modo. Man mano che incontravo una certa parola, un certo aggettivo, li tiravo fuori dal loro contesto e li analizzavo per vedere se si potevano usare nel “mio” contesto. In quel primo tentativo di individuare la bugia nascosta dietro parole anche per me suggestive, mi accorsi di quante di esse e quindi di quanti falsi concetti ero stata vittima.”
    (Goliarda Sapienza, L’arte della gioia)

    giovedì 7 febbraio 2013

    Come un fondo di caffé


    Ti darò d’amarmi il permesso
    se mi farai volare
    senza tenere il filo
    perché sono come il piccione viaggiatore
    conosco una strada sola.
    E poi ritorno.
    Ti darò d’amarmi il permesso
    se lascerai che pianga
    senza chiedermi il perché
    ma mi allungherai il fazzoletto
    che io non l’ ho mai.
    Ti darò d’amarmi il permesso
    se non mi chiederai mai e poi mai
    quanti percorsi ho chiusi dentro al cuore
    e dove si muovono i miei serpenti
    e dove azzannano
    e in quali ore della notte
    e quanti vestiti e dove e quando
    ho chiuso in cassapanche che non trovo.
    Alcune anche buttate.
    Ti darò di amarmi il permesso
    se mai mi dirai ti amo
    né mi adorerai
    ma guarderai con me dal vetro
    il caldo e il freddo
    e scuoterai con me le scarpe
    sullo stuoino.
    Ti darò il permesso di avermi
    se non mi vorrai
    non sempre
    non in assoluto
    ma mi terrai stretta
    in certe sere
    quando si agitano i demoni
    e tu li butterai fuori
    dalla porta
    con un abbraccio saldo
    e un bicchiere di vino.

    Lo so che non è semplice né facile
    per compagni di strada
    avventurosi
    ma la vita passata
    è compressa e nera e malinconica
    come un fondo di caffè.

    L’anima troppo affollata
    per tornare a gemere.

    Cetta Petrollo

    lunedì 4 febbraio 2013

    Con tanti new age garibaldini



    Photo by Martino Pisanello
    Con tanti new age garibaldini

    Sono una donna sola.
    Una donna sola
    può stare sveglia la notte
    e dormire di giorno
    mangiare in piedi
    all’angolo di un bar
    o davanti al computer
    una donna sola
    può tenere socchiusa la porta
    per chi vuol venire
    ha tanto tempo per leggere
    e studiare
    come avesse vent’anni
    può assaporare
    le nocche dure della massaggiatrice.
    Sono una donna sola
    per questo tengo la porta socchiusa
    mi gusto il mondo nuovo
    come una caramella
    ho l’aura intorno
    dei miei verdi anni
    quando non ero
    una donna sola.
    Una donna sola
    riapre libri e cassetti
    si ricorda di sé
    e respira quelle strane città
    dov’era stata
    prenota saggi e romanzi
    in libreria.
    Una donna sola
    guarda fuori e dentro
    a pelle tesa
    una donna sola
    si prepara non troppo
    non so se vuole davvero
    se davvero vuole
    abitare una casa
    meglio sarebbe un grattacielo
    a dirla come il Paglia
    con tanti new age garibaldini
    e compagni di strada.

    Cetta Petrollo



    domenica 3 febbraio 2013

    Chiude la radio di bordo




    Oggi il transatlantico
    chiude le comunicazioni
    e d’altra parte era da aspettarselo
    essendo passato
    in così breve tempo
    da un oceano all’altro
    dalle collane di haiti
     alla fiera dei pinguini
    dal caldo secco dei tropici
    al gelo dei poli
    dalle tranquille rive agli tsunami.
    Insomma oggi si chiudono gli s.o.s.
    che cosa c’era poi
    da salvare?
    Nessun naufrago in fondo
    solo nuotando
    malamente qualcuno
    e le popolazioni non potranno vedere
    nello sbarco
    come sarei stata brava a costruire igloo
    o capanne di palma
    ad arredare grotte
    o attici al trentesimo piano
    all’occorrenza
    con uguale perizia a seconda del caso
    o degli umori
    non potranno vedere mai
    come sarei stata
    duttile prodiga generosa inventiva
    nel mio viaggio
    non potranno vedere
    quanto mondo sarebbe caduto
    deponendosi ai piedi in omaggio
    e nemmeno vedranno
    quei souvenir che si raccattano
    nei porti per turisti
    o più all’interno
    nei mercatini che solo io
    sono  brava a scovare.
    Chiude la radio di bordo
    internet non ha linea
    Il telegrafista ha l’artrosi ai pollici
    il cellulare finalmente si sperde
    per non parlare della carta ambiziosa  del poeta
    già finita
    nessun operaio sarà  più messo al lavoro
    il seguito non sarà dato
    le case altrui affittate
    e già sventola dal ponte
    la proposta d’affitto.

    Cetta

    sabato 2 febbraio 2013

    I giorni della merla



    Potessi dire adesso
    sono i giorni della merla
    il mio cuscino d’oca è sopra il cuscino
    di gommapiuma
    così la testa è leggera alla mattina
    e il sogno che ho fatto
    non lo ricordo
    ma rimane la sua scia di risolto
    al risveglio
    e i piedi me li strofino da sola
    dagli infissi entra il gelo
    di prima della neve
    e sono i giorni della merla
    quando si spalancano
    amori invernali facendo bottino di attimi
    mentre le violette covano
    le balaustre nerastre
    lascio socchiusa la porta
    per i molti film che vedremo
    mi darai la corda che si dà agli aquiloni
    e  nessuno  per  strada
    a ispezionare il cielo.

    Cetta Petrollo

    Nel gesto lento della buonanotte




    È come andare sotto alle lenzuola
    d’inverno quando fa freddo
    e andarci portando quel libro
    che ti racconterò
    che tu non avrai letto
    oppure invece sì
    e non avrà importanza
    chi dei due saprà
    più o meno della trama
    in quel momento
    saremo insieme
    in quella solitudine
    dove ti raffiguri la mia casa
    e io  la tua
    un tempo lento fra biblioteche
    che si sono formate
    in anni in cui non c’eravamo
    ma c’eravamo.
    E stiamo già lasciando
    le durezze da mare a mare
    e le passioni
    nel  dolce che c’è in fondo
    alle parole che trovano risposta
    gli imbarazzi lievi
    nel gesto lento della buonanotte.

    Cetta Petrollo