domenica 5 dicembre 2010

La Ragazza Carla di Elio Pagliarani, Martedì 7 dicembre, ore 18, al Metateatro di Roma


VERSINSCENA 2010

Anche quest’anno l’Atelier Meta-Teatro ripropone, dopo il successo delle prime edizioni (2008 e 2009), la rassegna “Versinscena”. “Versinscena 2010”, che si svolgerà dal 29 novembre al 7 dicembre con dieci appuntamenti di ‘poesia & teatro’, vedrà impegnati poeti, attori, musicisti e videomaker in una ‘virtuosa’ contaminazione multidisciplinare volta a snidare la ‘poesia’, a restituirle un senso ‘teatrale’, spettacolare anche, e al tempo stesso profondo, autentico: ma soprattutto darà la parola direttamente ai poeti, ciascuno dei quali a sua volta darà forma, struttura e voce alla propria serata, pensata come ‘monografia’, o anche ‘autoesposizione’. (Per lo più come ‘reading’ a tutto campo; in qualche caso come ‘lettura scenica’ di una singola opera – poema o raccolta – emblematica dell’intera produzione.)

Gli appuntamenti-spettacoli della rassegna, curata da Pippo Di Marca, avranno il seguente calendario:

29/11 ore 21 Luigi Ballerini “Cefalonia” (poema a due personaggi)

lettura scenica di Luigi Ballerini e Pippo Di Marca

30/11 ore 21 Angelo Lumelli cura e letture di Angelo Lumelli

1/12 ore 21 Carlo Bordini “I costruttori di vulcani” cura e letture di Carlo Bordini

2/12 ore 21 Cetta Petrollo cura e letture di Cetta Petrollo

3/12 ore 21 Nanni Balestrini cura e letture di Nanni Balestrini

4/12 ore 21 Marco Palladini “Il mondo percepito – poetry concert”

cura e lettura scenica di Marco Palladini, sax Claudio Mapelli

5/12 ore 21 Mario Lunetta cura e letture di Mario Lunetta

6/12 ore 21 Luca Archibugi cura di Luca Archibugi lettura scenica di Almerica Schiavo

e Veronica Elisa Zucchi

7/12 ore 18 Elio Pagliarani “La ragazza Carla” lettura scenica di Pippo Di Marca

ore 21 Lucio Piccolo “Teoria delle Ombre” cura e lettura scenica di Pino Censi

giovedì 23 settembre 2010

Dale Zaccaria, recensione a Il salto della corda di Cetta Petrollo(Manni ed.2010)

Il salto della corda come il salto della vita.

di Dale Zaccaria

“Le parole di Cetta balzano sull’evidenza del foglio come una cascata di pietre-sillabe lucenti o come un grappolo succoso, senz’altro ordine o controllo se non quello rizomatico d’un istinto che scandendo conduce, nelle pieghe d’un cuore-messo-a-nudo e ad ogni istante tutto da scoprire.

Non è pura passione della pagina, alcunché di simile (a scrutarne la sostanza) all’esercizio d’una prosa d’arte, ché nulla si cristallizza qui (nulla può cristallizzarsi) per offrirsi come il cesellato frutto d’un operare.” Tommaso Ottonieri

Un ape operosa, come la piccola “ape furibonda” uno dei tanti versi con cui amava descriversi Alda Merini, o una “Diana folle, invitta cacciatrice” per usare altre strofe della nostra amata poetessa.

Furibonda nella parola, Invitta cacciatrice di poesia e di vita. Così le parole di Cetta Petrollo sono parole scolpite con grazia con cura e passione come nel suo Corpo Glorioso “quando si cura la vita non si può pensare ad altro”. E sono appunto parole-vita, parole domestiche, parole conosciute, parole di sua madre Rosalia che ha “il corpo ancora liscio come quello di una ragazza”. E’ la parola Femmina quella rivestita, annusata in un “letto berbero” con le sue “piazze assolate, l’odore del tiglio e della carota” è la parola della “libertà dei papaveri” di un “vestito rosso” indossato “per fare un gioco da ragazzi”- “come se fossi una trentenne”.

E’ la parola stesa nella “domenica” “dove mi chiudo in cucina e tiro le tagliatelle” la parola usuale quella di tutti i giorni ma “baluardo contro le tempeste, difesa contro le sirene, scogliera durissima e inattaccabile della femminilità”.

E’ la parola del salto della corda, come il salto della vita, in cui Cetta Petrollo sta sempre un po’ più in là, in quel “fermo invito, che mi offre mia madre”, perché infondo- dice- nella prosa Capire : “ecco non c’è più protezione. Dalla morte siamo buttate fuori come in una diversa nascita”.

E in questa diversa nascita allora si cerca un “Noi” perché “sarebbe come dire che non c’è stato un io perché l’io si è chiuso nella panna montata della vita vissuta, cresciuta su di sé come un’escrescenza incontrollabile, fuori progetto, fuori programma”.

E’ questo fuori infondo è l’essere dentro. E’ il salto della corda appunto che batte e ribatte come il salto della vita, con il suo inizio e la sua fine, i suoi dubbi e le sue atrocità, e di fronte a questo Cetta Petrollo preferisce “giocare”, addomesticarla la vita, stenderla dentro casa con quel “matterello-timone” “che è anche quello dei mie affetti, casa che mi consente di governarmi e di governare” e in quella casa c’è insieme a lei il capitano-poeta, Elio Pagliarani, la credenza arancione di sua madre dove riposare e rovistare le parole, e fuori dalla finestra, c’è un ragazzo di colore che salta la corda:

“Quando annaffio i fiori la sera, di fronte, nel viale, c’è un ragazzo di colore che salta la corda.

Non me ne accorgo subito, infatti sono concentrata sulle rose, sui gelsomini, che stanno fiorendo, sui ciclamini che insistono a non morire, sulle margherite gialle africane, che resistono a tutto, sulle piantine grasse che si espandono e si allungano faticosamente sul terrazzino. Non me ne accorgo subito attenta come sono a non far cadere troppa acqua sulla strada, a non far corrente in casa, a non bagnarmi, a non fare rumore. Però è il rumore, il battito insistente della corda sul selciato, a farmi alzare gli occhi, e a vederlo, alto, elegante e nero, proteso senza vergogna, nella solitudine serale della città, in un gioco da bambini(…)

Avrei potuto avere una vita così. Uno stacco, un’allegria, molta curiosità.

Ma non è importante che io, proprio così, non l’abbia vissuta la mia vita (…)

L’importante è che lui in questo momento esista e salti la corda mentre io annaffio i fiori e nello sguardo siamo necessari tutte e due. Ognuno nel suo pezzetto di miracoloso equilibrio.

Acqua sorgiva. Acqua sorgiva”.

sabato 11 settembre 2010

Da Favole 2010


Amanti



Una volta, un po’ di tempo fa, il tempo appunto che, ti dicevo qualche favola fa, si puliva il riso e si pulivano le lenticchie e sul tavolo di marmo della cucina insieme al riso e alle lenticchie si facevano gli gnocchi che ora gli gnocchi li fa Rana e domani quando cucinerai chissà chi li farà e dove li cuoceremo e chi li mangerà e se ce li mangeremo ancora, e una volta quando il tavolo era davanti alla finestra, quella volta che dalle finestre cantavano le donne ma non di pomeriggio perché tutti dormivano era come se di pomeriggio alle due e mezza, le tre, non lavorasse nessuno, ma nemmeno alle quattro o alle cinque, insomma, quella volta lì, se una signora attraversava un cortile silenzioso con passo calmo, tacchi, i tacchi di cui parlavamo qualche favola fa, la borsetta in mano, una scia di profumo che si avvertiva, si immaginava, fin su, fino alle finestre alte sul cortile, ecco quella signora si diceva, si bisbigliava, quella signora, sposata, si capisce, aveva un amante.
L’amante, quella volta lì, si immaginava, prima dei libri di D'Annunzio e di Moravia, prima della prima comunione, della confessione, dei borbottii del sesso, l’amante si immaginava, mentre la signora attraversava il cortile e avere un amante era come avere un gioiello in più, una libertà appunto fuori dal cortile che la signora lasciava, mentre noi si puliva il riso, si contavano con le dita le lenticchie,e lasciava e lasciava, nell’immaginazione, girando l’angolo svelta, con una gonna appena un po’ troppo stretta, l’aria un po’ troppo svagata, distratta, riservata.
Poteva l’amante regalare rose? Magari rosse come quel fioraio perfetto dove non si entrava mai, rose dallo stelo lungo, e carnose e erette, come non fossero fiori ma gioielli da regalare, accurati gioielli, studiati per la vetrina che si allungava vicino alla pasticceria lungo il viale? Certo l’amante regalava rose e forse anche cioccolatine, un di più di cioccolata quando non era né Pasqua né Natale né compleanno né domenica, l’amante regalava rose fuori dal cortile e dal buio delle case, in certe passeggiate mai viste, solo intraviste in certi angoli di città poco frequentati e costosi.
E così una volta c’era l’amante, l’amante che poi voleva dire la donna, che poi voleva dire quella che usciva alle cinque del pomeriggio, la sottoveste di seta, il reggicalze, la calza di seta lucida, la scarpa di vitello nero equilibrata fra punta e decolté, l’amante che voleva dire albergo, che voleva dire peccato, che voleva dire come quella canzone di una che non ricordo il nome,che si spegneva la radio quando cantava, non si sa mai i bambini…, tua, sono ancora tua, fra le braccia tue, così…
L’amante, l’amante.
Una scia appiccicosa a pensarci bene, pesante come le pastarelle domenicali, come il messale dalla copertina nera, come il pizzo nero sulla testa e i guanti fino al gomito.
L’amante. L’amante.

martedì 31 agosto 2010

Da Favole 2010

Come mi piace raccontare

Come mi piace raccontare, raccontarmi dentro, raccontare passeggiando, raccontarti.
E mi piace, come mi piace!, vedere le cose da raccontare, quelle che ci sono innanzitutto, proprio, proprio qui, proprio ora, perché chissà se fra un minuto questa luce se ne sarà andata o sarà ancora proprio questa, se questo cammino ci sarà ancora e ancora quella persona e quella e quella e quell’altra e nel ricordo, perché chissà se fra un minuto il ricordo sarà proprio ancora così o sarà diverso, come raggelato dentro al corpo, ci sono ricordi che possono sbiadire come la stoffa di un vestito tenuto troppo al sole e se sbiadiscono, sbiadiscono, e ancora sbiadiscono, alla fine non sono più niente, quasi niente, e allora bisogna continuamente raccontarseli i ricordi.
E come mi piace raccontarsi il corpo che i profumi del corpo me li racconto, così evaporano di meno perché i profumi se ne vanno e se non li racconti poi non ci sono più e ti devi sforzare, li devi raccontare, per esempio il profumo che hanno le pieghe dei gomiti, gli incavi, quando sei giovane.
Come mi piace raccontare!!!
Lascia che io guardi ancora tutto, proprio per dirtelo per bene, proprio, proprio, perbene, perché i bambini e i giovani sono troppo occupati a guardarsi dentro, a crescere, impegnati, impegnatissimi nella crescita, e gli adulti nella lotta per rimanere in piedi, schivando non sai quante buche, chiodi arrugginiti, ortiche e rovi, bisce che pendono, vipere che mordono, perciò solo i vecchi si godono lo spettacolo di fuori e lo sanno raccontare. Chissà se poi, dopo, arriva anche il momento che non perdono più tempo a raccontarlo, gli basta solo ancora, e ancora, e ancora, vederlo.
Ad ogni modo adesso mi piace vederlo e dirtelo.
Che è tutta una favola, credimi, questa luce che si presenta e poi a poi a poco vira e si nasconde nella sera che certe volte ti coglie all’improvviso mentre ancora leggi e non ci hai proprio pensato ad accendere la luce e poi si dorme, che è bella la stanchezza, qualsiasi cosa tu abbia fatto di giorno, la stanchezza fa giustizia e scivoli proprio dentro al cuscino e il giorno dopo si ripresenta la luce e vira ancora nei suoi modi diversi , dipende dalla stagione, dai mesi, dal posto del mondo in cui ti trovi, ma si ripresenta, in certi posti, lo sai?, dopo qualche mese.
E incredibilmente quando ti svegli, ti scopri a respirare.
Tu sei respiro, anche se ancora non lo sai, perché ora sei tutta fame, non lo sai, non ci fai caso, che sei respiro. Respiro che ti accompagna lungo il lunghissimo giorno e che vira come la luce.
Ma al mattino si ripresenta sempre. E io te lo racconto!

lunedì 30 agosto 2010

Da Favole 2010

Mogli

Una volta, un po’ di tempo fa, non tanto tempo fa ma un po’ di tempo fa, il tempo che ci vuole a fare invecchiare una casa, iniziare a invecchiare una casa, quando i tubi cominciano a perdere e l’intonaco esterno a sgretolarsi, quando l’impianto elettrico non è più a norma e gli infissi non chiudono bene e il legno delle imposte si scheggia e il pavimento si allarga, cioè le fessure fra una mattonella e un’altra si allargano e in mezzo c’è uno scuro che non va via e le maniglie delle porte forse sono un po’ ossidate e la poltrona è completamente infossata e il divano smollato e il frigorifero cambiato tre o quattro volte e in quella casa sono già passate almeno tre famiglie e i figli sono diventati nonni e altri figli si affacciano forse più robusti e più lunghi e più allegri, tutto merito del latte artificiale dirà qualcuno, insomma una volta non antichissima ma abbastanza antica da scriverci una favola, una volta le badanti si chiamavano mogli.
Le mogli badavano a tutto. Innanzitutto cucivano e stiravano e lustravano le scarpe perché se uno usciva di casa con gli abiti spiegazzati e senza bottoni o con orli scuciti o federe pendenti voleva dire che in quella casa non c’era nessuno che badava a niente e dunque quella era una casa di poveracci davvero, poveracci di cure, di affetto, di sapienza e di lavoro, una casa di vagabondi e di disgraziate. Una casa senza moglie.
E le mogli badavano alla cucina. Ma non la cucina elaborata e raffinata o esotica o dietetica o salutistica. Le mogli badavano alla cucina per crescere i figli, per curare gli ammalati, per far mangiare i vecchi, quelli senza denti, senza udito, senza vista e senza appetito proprio come erano i vecchi di una volta che non si mettevano le dentiere né gli apparecchi acustici né si operavano di cataratta e non uscivano sulla sedia a rotelle e non avevano il fisiatra né le flebo dunque era un’acrobazia riuscire a farli mangiare, bere, andare di corpo, pisciare e quello era un lavoro delle badanti che si chiamavano, a quei tempi, mogli e con la loro cucina riuscivano a parare, a rinviare il più possibile l’arrivo del dottore che quando arrivava il più delle volte ammazzava. E le mogli conoscevano le monacelle, i rimedi delle monacelle e facevano bollire certe tisane, una per pisciare, una per andare di corpo, una per l’allegria, una per il sonno, una per il fegato, una per la febbre. E accuratamente le badanti- dette mogli- nascondevano al medico quello che combinavano in cucina perché la cucina era roba loro e là dentro potevano entrare solo altre mogli o future mogli o mogli in pensione, nessun uomo poteva mettere il naso.
E le mogli- badanti capivano quando era stato concepito un figlio o stava per nascere un figlio e quando stava per morire un vecchio. Non c’era bisogno del dottore, da certi segni incomprensibili ai più ma non a loro le mogli badanti capivano la vita, il suo inizio, la sua fine, le sue parentesi.
E le mogli facevano da architetto nelle case, le abbellivano, le decoravano, le intessevano, le mantenevano, le ricamavano e lavoravano a maglia. In ogni casa si sentiva il rumore del pedale, c’era sempre una poltrona vicino a una finestra, la luce giusta per il ricamo.
Le mogli – badanti una volta non venivano pagate, non avevano lo stipendio, né la liquidazione, né la pensione. Da vecchie se la dovevano cavare così, da sole, sperando che la più giovane moglie-badante si prendesse cura di loro come loro si erano curate della suocera, della mamma, della zia zitella. E poi speravano di non vivere a lungo, non troppo a lungo, perché è triste la vecchiaia quando non puoi più badare a qualcuno.

Da Favole 2010

Mirta

A richiesta ora racconto la favola di Mirta ( conta, conta, dicevano alle vecchine, una volta di quelle là, le bambine, le ragazze grandi da marito, le spose, le donne incinte, le puerpere, le lavoranti di casa, le lavandaie le sguattere, conta , conta, canta canta, suona suona, dicono oggi in piazza quando c’è il moderno saltimbanco, il contastorie, cioè il tipo che viene pagato alle feste dell’Unità o alle sagre di paese o dai comitati turistici per cantare e far ballare la piazza, canta, canta) e dunque mi accomodo la penna, anzi il computer, e ti racconto anch’io qualcosa, che una volta ci si accomodava la gonna, si preparavano le mani o si accomodava la penna e l’inchiostro e la carta assorbente e ci si apparecchiava a contare.
Ecco ci sono già dentro, sto parlando di Mirta.
Perché Mirta sa di ramoscello, di verde d’autunno ma anche di inchiostro e di carta assorbente e di pennino e di cucina e di orto di ortaggi di caminetti e di pavimenti in cotto, di fazzolettoni sulla testa di ariose finestre che si spalancano su orti in discesa uliveti senza confine vitigni bassi cantine oscure sentieri punteggiati da muretti di coccio segnati da qualche botte e lontano, sai, anche lo spaventapasseri.
C’é aria intorno. Molta aria. Aria aperta, dove si respirano i fuochi delle conserve d’agosto, degli agnelli di Pasqua, dei carciofi nuovi, la bollitura delle marmellate.
Ma Mirta è anche Mirtella e Mirtella percorre i boschi del passato, scava le buche della memoria, le sopravvivenze, qui un coccio, lì una pietra, più giù una colonnina, scava in linea retta ma talvolta fa dei giri eleganti intorno alle cose perché non scordarti che è una ninfa e si chiama Mirtella.
Sicché il bosco la chiama ed è un bosco gravido di calore silenzioso e pulito con lisci tronchi e profonde radici che devi stare attenta, nelle radici ci caschi, e c’è nel bosco il buco del silenzio che gravita fermo come il gabbiano quando vola con le ali immobili invece è il bosco che sta gravido, immobile è un bosco sacro lo percorre Mirtella.
Dici che è una biblioteca?
Che il bosco sono le colonne di legno dove immobili stanno i libri dai dorsi dorati in bell’ordine più su, più su ,più su, religione storia filosofia medicina su, fino ai finestroni sempre chiusi, giù, ancora più lontano, nel magazzino con le cancellate, chiavistelli ovunque, attenta a non inciampare nel sapere.
Ma no, che Mirty non inciampa perché lei è anche Mirty e si dà da fare intorno a un libro come intorno ad un ortaggio e lo sorveglia, lo coltiva, perché, sai, i libri sono delicati, delicati da leggere, delicati da mangiare.
Provati ad aprire un libro di quelli del bosco e avrai paura.
Dall’emozione, specialmente se hai tredici anni, ti si incollerà l’inchiostro dentro, in un posto che alcuni chiamano anima, ma questo lo scopri dopo, intanto che ti muovi nel bosco, e anche sulle dita, allora il libro si chiama manoscritto ,ed è un fungo nascosto.
Un giorno ti prendo per mano e ti ci porto, sì che ti ci porto, in una biblioteca.
Ma devi stare in silenzio, come in chiesa, così vedrai il bosco.
Mirtella, invece, ti ci porto prima.

domenica 29 agosto 2010

Da Favole 2010

Pentoloni

Una volta c’erano i pentoloni. Pentole talmente grandi che nemmeno te lo immagini quanto erano grandi che quando le trovavi in un libro di favole non sembrava una favola ma una pentola vera perché ogni giorno a tavola l’acqua bolliva in una pentola così e passava un ‘ora prima che l’acqua bollisse e più la guardavi più non bolliva mai dentro l’alluminio tirato a lucido la superficie appena increspata la mamma che diceva se la guardi non bolle mai.
E in questa pentola si buttavano dentro certi spaghettoni lunghi e duri che bisognava tagliare a metà che si compravano in certi negozi che li tenevano in certi cassetti di legno aperti inclinati e c’era in quei negozi odore di spaghetti di citrato e di cassetti.
E dopo un po’ con la punta di una forchetta si tirava su uno spaghetto lungo e lucente e si assaggiava ma era sempre duro e bisognava aspettare ancora sicché si assaggiava di nuovo e di nuovo finché non assaggiavi più e lo spaghetto scuoceva se per esempio ci si metteva a parlare e si scherzava e bisognava essere in due ad alzare il pentolone a scolare la pasta a reggere lo scolapasta a farla saltare e l’insalatiera era bianca pesante enorme con lo strofinaccio intorno a portarla a tavola.
Ma non ricordo, non ricordo bene del sugo. Perché più spesso era burro certi tocchi di burro decisamente giallo prima che ci dicessero che era meglio no niente burro e sul burro il formaggio grattato un formaggio invecchiato e il pepe nero che faceva allegria preso dalla boccetta e non come si vede ora nelle pubblicità macinato in certi affari finto antichi.
Perché una volta il macinino era solo per il caffè e ci volevano ore prima di macinarlo con pazienza e si guardava attentamente la mamma che era serena e concentrata mentre lo faceva come quando stirava o quando avvolgeva gli involtini o quando passava il riso le lenticchie sul ripiano del tavolo.
E il macinino? Il macinino è lì, in alto, aspetta che te lo prendo.

Da Favole 2010

Favolissima

Potrei anche domani andarmene e allora giacché ho una fretta terribile ti dico subito chi sono perché credimi gli uomini sono come le favole, uno simile a un altro non ce n’è, e la favola che si conosce meglio è la propria anche se senza conclusione che la vedi intanto che la racconti e più tempo passi a raccontarla più la vedi.
Dunque sono nata che era autunno, quando c’era l’autunno, come faccio a spiegarti,l’autunno era un tempo frescolino con i cachi che ti potevi mettere un maglione leggero, una gonna a pieghe e i calzettoni e trovavi già le prime pere e sono nata che c’erano inchiostri e pennini e la carta assorbente e sono nata che se una era brutta era proprio brutta e non c’era rimedio e le brutte brutte avevano proprio un odore diverso e se avevano i baffi e i brufoli e i punti neri e il naso lustro se lo dovevano tenere e se erano belle però erano bellissime.
E poi c’erano i maschi e c’erano le femmine e i maschi erano forti ma proprio forti con i muscoli sotto alla camicia e l’odore di sperma di maschio e le femmine erano tranquille con l’odore di femmina dolce erano serene, fatte tali dalle gravidanze e dai bambini e c’erano un mucchio di bambini dappertutto e non c’erano tante medicine per cui ogni tanto la morte aleggiava vicina, proprio vicina, addirittura nel cortile, state zitti, state zitti c’è una bambina che sta molto male.

E c’erano le canzoni dalle finestre aperte e c’erano gli stracci per la polvere e c’era l’acqua della fontana e c’era l’educazione e c’erano mamma e papà che certo ci sono ancora ma mamma e papà di una volta si sedevano a tavola e non potevi disubbidire né gridare né mancare di rispetto perché non era tanto sicuro che non ti abbandonassero e se eri venuto al mondo non era per loro decisione ma di Dio e dunque loro erano irresponsabili della tua nascita, responsabili solo d’amore, tutti sotto la decisone di Dio e perciò bisognava essere umili.

E quando sono nata c’era la pazienza, pazienza del dolore, pazienza della malattia, pazienza del farsi delle cose che si fanno a poco a poco e non è detto che sempre riescano.

E quando sono nata c’erano le parole, tante parole e le parole riempivano gli occhi, le orecchie, la bocca, le parole facevano il mondo, non c’era altro divertimento che la parola.

E quando sono nata insomma era il millenovecentocinquanta era un secolo fa era l’anno Santo arrivarono gli antibiotici e per quello sono nata settimina tutta pelosa due mesi in incubatrice e mia mamma non morì di tifo dopo avere bevuto per tutta l’estate l’acqua di un paese di mare che si chiamava Mondello.

In casa c’è una fotografia da qualche parte, Lia sotto un muro bianco a Mondello. Io sono in quella pancia.

sabato 20 febbraio 2010

Associazione culturale

organizzazione non lucrativa di utilità sociale

Venerdì 26 febbraio

Ore 17

presso L’antica biblioteca Valle

(Largo del Teatro Valle n.9, Roma)

l’Associazione Amici delle biblioteche

organizza

il primo della serie Incontri con l’autore:

Francesco Muzzioli introduce e intervista Mario Lunetta

Si conosce uno dei più incisivi rappresentanti della cultura militante italiana,si ascoltano parole e letture, si beve e si mangia qualcosa al prezzo di 10 euro.


lunedì 1 febbraio 2010

Destra Sinistra

E’ molto difficile orientarsi nel panorama politico italiano: personalità appartenenti storicamente e culturalmente agli ambienti della destra dicono cose di “sinistra”, personalità storicamente e culturalmente appartenenti agli ambienti della sinistra operano e amministrano con scelte che potrebbero essere condivise anche da amministratori di “destra”.
Dunque bisognerebbe far chiarezza e cercare di individuare qualche, possibile, linea di confine, qualche variante imprescindibile superata la quale si è orientati o di qua o di là, chiarezza necessaria se non al voto- quante variabili incidono poi sul voto e lo sappiamo bene quando si candida l’amico della porta accanto o la persona cui dobbiamo qualcosa- sicuramente alla propria onestà intellettuale.
Determinanti a stabilire un confine sono, a mio giudizio, le decisioni sulla spesa pubblica, sulla gestione delle risorse.
Mi sembra valido e inconfutabile il concetto che quando con le risorse di tutti si agisce e si operano migliorie per pochi si è evidentemente in una politica di destra e quando con le risorse di pochi – quelli che più possono, i ricchi, i benestanti si sarebbe detto una volta- si agisce e si operano migliorie per tutti siamo, forse, in una politica di sinistra.
Se ad un prato ben tenuto di una villa privata concorriamo tutti, con le leggi, i permessi, le tasse e gli sgravi fiscali, ecco questa è una scelta di destra, se un parco pubblico riapre con le risorse di una giusta tassazione, ecco questa è una scelta di sinistra.
Non è detto poi che siano proprio gli uomini dei partiti di sinistra ad operare scelte di sinistra né che siano proprio gli uomini dei partiti di destra ad operare scelte di destra ma la linea di confine ci può aiutare ad individuare, al di là dei nomi e delle appartenenze, il vero colore politico delle azioni di cui tutti, quotidianamente, subiamo le conseguenze.
La politica di sinistra poi è apparentemente sciupona.
Essa investe sulle risorse intangibili. Investe, cioè su quelle che possono sembrare pure perdite nel presente, la coltivazione delle menti, la prosecuzione della memoria e della ricerca, infine la non rozza conservazione della propria identità, identità non solo artistica, culturale, storica e di ingegno ma anche paesaggistica – come ebbe a dire recentemente Antonio Paolucci – in una disseminazione territoriale su cui si è fondata la costruzione del Paese Italia e che da senso e significato alla nostra collocazione nel mondo.
La politica di sinistra dunque sciupa per il futuro e dunque non sciupa. Essa avverte che in un’economia globale nella quale noi siamo comparse di poco conto non potendo contare né su risorse finanziarie, né su materie prime, né su una forza lavoro competitiva, possiamo contare sul valore aggiunto della nostra preziosa tradizione, sulla cultura sedimentata della nostra storia e ci possiamo contare non solo per rilanciare circuiti turistici mappati da ristoranti, vinerie e alberghi ma per esportare il nostro patrimonio di idee nel mondo – e non solo come co.co.co. a progetto.
La politica di sinistra sciupa per tentare di garantire una soglia accettabile di salute e di benessere a tutti perché un popolo più sano mette da parte per il futuro e nel futuro continua a sperare.
Ripeto non è detto che questa politica sia agita da uomini dei partiti di sinistra, né che riguardi l’intero territorio nazionale: oramai le regioni perseguono scelte del tutto autonome nelle più importanti materie costituzionali e così può capitare che una regione garantisca farmaci e dieta gratuita per i glicemici e i neuropatici e un’altra no, che in una siano attivi corsi professionali e in un’altra no, che in una anche il più piccolo centro storico sia mantenuto e in un’altra si assista a vergognosi e drammatici abbandoni come le cronache dei giornali mostrano tutti i giorni.
E non si dica che in momenti di crisi le scelte di spesa sono inevitabilmente univoche.
Cosa spendere e per chi spendere, anche in ristrettezze economiche, resta una scelta politica: si tratta di decidere, infatti, per chi e su cosa investire.